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Il ritrovamento del Laocoonte
Nuovi documenti cambiano la datazione

Nell’Archivio storico “Innocenzo III” di Segni, nel corso delle operazioni di riordino e catalogazione della biblioteca del soppresso seminario vescovile –  ricca di un fondo antico di circa quattromila volumi – è stato rinvenuto un prezioso incunabolo, ovvero l’esemplare di una edizione della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, stampata a Venezia nel 1491 dall’editore Tommaso de’ Blavis per la cura dell’umanista Filippo Beroaldo, che finora era sconosciuto a tutti i repertori internazionali. Dopo un laborioso intervento di restauro, reso necessario dal cattivo stato di conservazione del volume, si è proceduto ad un esame meticoloso delle numerose postille a penna che incorniciavano il testo stampato.

Grazie ad alcune note di possesso si è potuto accertare il nome dell’antico proprietario del libro, nonché autore di tutte le postille su di esso, ovvero Angelo Recchia di Barbarano (1486-1558): insigne giurista che fu a lungo al servizio delle magistrature capitoline e della Camera Apostolica, per poi divenire nel 1557 uno dei Conservatori dell’Università La Sapienza, dopo avere ottenuto nel 1553 anche la cittadinanza onoraria di Roma. Come è emerso dalla ricerca, durante la sua carriera il giurista di Barbarano ebbe modo di entrare in contatto con membri della nobiltà romana, come Marcello Alberini o Cristoforo Cenci, oppure con artisti come Giulio Romano ed Antonio da Sangallo, con il quale fu incaricato, in qualità di “Commissario alle Marmore”, di regolare i corsi d’acqua che nascevano dalle cascate predette.

Il suo monumento funebre si trova nella chiesa di S. Agostino in Campo Marzio, dove il nipote Evangelista Recchia, per onorarne la memoria, commissionò un elegante monumento sormontato da un busto-ritratto di notevole fattura. Al di sotto del busto, riferibile stilisticamente all’ambito dello scultore lombardo Giovan Battista della Porta, si trova il suo stemma ed una epigrafe latina che recita:«D.O.M./ ANGELO RECHIE DE BARBARANO/ V.I.D. QUI VIXIT ANNIS LXXII/ OBIIT DIE VIII APRILIS/ M.D.LVIII. EVANGELISTA/ RECHIA DE BARBARANO.V.I.D./ NEPOS EX FRATRE PATRUO/ BENEMERENTI POSVIT».

Lo spessore intellettuale di Angelo Recchia è testimoniato dal tenore e dall’argomento delle cennate postille, dove annota varianti testuali, apporta correzioni e rimandi ad altre opere classiche e lascia appunti di carattere personale: tra questi ve ne è uno che riguarda direttamente il rinvenimento nel 1506 del celeberrimo gruppo statuario antico del Laocoonte. Su questo capolavoro dell’arte ellenistica, opera di Agesandro, Atanadoro e Polidoro di Rodi, recentemente sono stati prodotti diversi studi che riguardano i problemi della sua datazione (che dovrebbe risalire al I sec. a.C.), il luogo esatto della sua scoperta (la vigna di Felice de Fredis che era ubicata alle pendici orientali del Colle Oppio), il fatto se si tratti o meno di  un originale piuttosto che una copia di un’opera più antica (si vedano i recenti contributi di Salvatore Settis), e la sua stessa fortuna nel Rinascimento. Anche il volume conservato a Segni è in grado di aggiungere un piccolo ma importante tassello a questa straordinaria vicenda dell’archeologia e della storia dell’arte.

Alla carta 290v del volume, secondo la numerazione moderna, a fianco del brano che Plinio dedica al Laocoonte (lib. XXXI, cap. 5), si legge infatti: «Laochoõ/ tis statua/ qua Divus/ Iulius Pont./ Max. in pa/ latio Vaticano loca/ vit: reperta/ est Ro[ma] An/ no Virginej/ partus/ 1506/.iiii. Jdus/ Januarij».

Dato il clamore che suscitò il ritrovamento, non si tratta dell’unica annotazione di questo tipo: un anonimo umanista dell’inizio del Cinquecento ha lasciato una quasi identica postilla su una copia manoscritta dell’opera di Plinio, oggi conservata nella Biblioteca Angelica e famosa perché da essa è stata tratta la prima edizione romana a stampa della Naturalis Historia. Fin da subito è, però, balzato agli occhi che la data riportata dal Recchia (cioè il quarto giorno prima delle idi di gennaio, vale a dire il 10 gennaio) non corrispondeva a quella ufficiale, considerata tale da cinquecento anni sulla base di una lettera del fiorentino Filippo Casavecchia, che poneva l’eccezionale ritrovamento quattro giorni dopo, cioè il 14 dello stesso mese.

In verità, sulla data ed il luogo del ritrovamento non abbiamo una documentazione precisa, anche perché spesso ci avvaliamo di notizie riportate nei loro dispacci da forestieri (come il Casavecchia) o da stranieri di passaggio, ma il caso di Recchia è diverso. Infatti la notizia da lui annotata è certamente da ritenersi più attendibile delle altre, in quanto egli era residente da tempo nell’Urbe, era un alto magistrato capitolino ed intratteneva stretti rapporti con autorevoli membri della Corte Pontificia, anche per gli importanti incarichi di governo che fu chiamato a ricoprire. Le magistrature capitoline, peraltro, tentarono  inizialmente di acquisire il Laocoonte per unirlo alle altre vestigia che si conservavano sul Campidoglio, ma dovettero rinunciare a questo ambizioso progetto per il perentorio intervento di Giulio II, che facendo pesare la sua autorità acquistò il gruppo scultoreo e lo espose nel cortile del Belvedere in Vaticano. Due furono, molto probabilmente, le fonti di informazione di Angelo Recchia: l’architetto Antonio da Sangallo, nipote di quel Giuliano da Sangallo che per primo, insieme a Michelangelo Buonarroti, riconobbe nel gruppo scultoreo, ancora in parte interrato sulle pendici dell’Esquilino, l’opera citata da Plinio il Vecchio e, soprattutto, il padrone della “vigna” in cui ebbe luogo l’eccezionale ritrovamento, ossia il romano Felice de Fredis, che dal 1509 fu al servizio della Camera Urbis, quindi in diretto contatto con le stesse magistrature capitoline presso cui, di lì a poco, avrebbe svolto la propria attività lo stesso Recchia.

LaRepubblica

ll direttore dei Musei Vaticani Prof. Antonio Paolucci spiega, durante una conferenza stampa, la nuova datazione del ritrovamento del Laocoonte, da un incunabolo conservato a Segni.